ESTRATTI

7 ottobre 2015
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[da Pinelli/Ciabarri “Dopo l’approdo. Un racconto per immagini e parole sui richiedenti asilo in Italia” Editpress, Firenze]

Sulla fotografia
Barbara Pinelli

Guardate, dicono le fotografie, questo è ciò che succede
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri

«Vediamo se, guardando le stesse fotografie, proviamo gli stessi sentimenti» scriveva Virginia Woolf (1980 Le tre ghinee Milano Feltrinelli) immaginando uno scambio epistolare con un avvocato su fotografie che ritraevano immagini della guerra civile spagnola. Pur riconoscendo l’importanza di quel libro, è ampia la discussione che Susan Sontag (2003 Davanti al dolore degli altri Milano Mondadori) dedica alle riflessioni della scrittrice inglese. Due questioni in particolare occupano spazio nelle sue pagine. La prima richiama la condivisione dell’immagine e destabilizza l’esistenza di un «noi» destinatario collettivo e indistinto che, di fronte alle stesse immagini si presume reagisca con una medesima empatia emotiva. Di fronte alle fotografie di guerra, tutti, scrive Virginia Woolf, «se non sono mostri», devono reagire con orrore e disgusto. La seconda riguarda l’immagine fotografata: la guerra spagnola parla dell’atrocità della guerra in generale, ed è di fronte ad essa che il pubblico deve inorridire. Di fronte cioè ad immagini di guerra che le fotografie raffigurano come fatto oggettivo e vero, e non come risultato di coordinate storiche e politiche.

Per quanto le fotografie siano «uno strumento per rendere ‘reali’ (o ‘più reali’) situazioni che i privilegiati, o quanti semplicemente non corrono alcun pericolo, preferirebbero forse ignorare» (Sontag 2003 10) dar per scontato il destinatario e la sua reazione morale di fronte a fotografie che ritraggono ed esibiscono «il dolore degli altri» presuppone un’illusione del consenso e della condivisione (Ibidem 9). Soprattutto, limita la fotografia ad esibire il dolore con un gesto di semplificazione e di forte retorica che porta fuori dalla storia sia l’immagine ritratta, che colui o colei che la guarda. All’immagine è così attribuito un potere quasi oggettivo, dunque sempre condivisibile, un significato unico e quasi universale non sensibile a variazioni d’interpretazione o di contesto. Rese oggetto generico, togliendo cioè alle immagini il peso della storia che stanno raccontando, esse perdono la loro più importante vitalità data dalla loro essere vicende assegnate alla storia. Togliendo di mezzo la dimensione storica, la fotografia finisce così per mostrare vittime anonime perdendo così la loro valenza politica.

Se la forza della fotografia consiste nelle reazioni emotive che può provocare, è vero altrettanto che la consegna diretta delle immagini ad «interpretazioni, ininterpreinterpretazione, giudizio e immaginazione» (Bourgois e Schonberg 2011 Reietti e fuorilegge. Antropologia della violenza nella metropoli americana Roma Derive Approdi 32) di un osservatorio eterogeneo e distinto può altresì costituirne un aspetto problematico. Il significato muta, infatti, e si costruisce, a seconda del contesto, dello spettatore e del suo posizionamento sociale, e ancor più rispetto alle posizioni ideologiche della società a cui sono offerte. È questo un punto importante rispetto all’analisi antropologica e al lavoro specifico di queste pagine. Segna il nostro punto di partenza, la spinta cioè ad interrogarci sulle immagini dei richiedenti asilo, e delle migrazioni più in generale, che hanno circolato prima e durante il questi ultimi due anni. E, di conseguenza, ad interrogarci anche sulle fotografie che queste pagine fanno circolare.

Le immagini sui rifugiati a cui generalmente assistiamo hanno tratti comuni problematici dove la raffigurazione di uomini, donne e bambini ridotti a boat-people o a masse di persone tratte in salvo e stipate nelle navi – usate generalmente nella stampa quotidiana – rappresenta solo un aspetto del problema. Uno sguardo compassionevole da una parte, che dovrebbe suscitare pietà ed evocare disperazione, e una trama respingente e razzista dall’altra, che in quelle immagini vede raffigurati una massa umana clandestina sono i due poli che trascinano significati sociali condivisi, e con cui questo lavoro necessariamente si confronta. E per quanto possibile, intende contrastare. Sappiamo anche che, nel caso dei rifugiati, il discorso sociale che rifiuta e discrimina la migrazione forzata può trovare suggestioni nelle immagini che riportiamo per alimentare presupposti di disagio e di delinquenza, di profitto e d’appropriazione indebita di spazi pubblici.

Aggiungiamo qui un ulteriore livello, probabilmente ambizioso. Presupposto di queste pagine è anche sollecitare attraverso la fotografia sociale una discussione pubblica sui rifugiati in Italia. Non significa controllare l’interpretazione. Piuttosto, dal punto di vista dell’antropologia e della pratica foto-etnografica che abbiamo condiviso, questi presupposti rimandano ad un inquadramento storico e politico della documentazione raccolta. Nel nostro caso, si è trattato di rendere effettivo il dialogo fra antropologia e fotografia sociale. L’assenza di spiegazioni può, infatti, rendere la fotografia estremamente vulnerabile e ambigua, attribuendo significati che non sono quelli che il fotografo – e gli antropologi in questo caso – avrebbero voluto trasmettere. La funzione delle didascalie e delle parole assolve l’importante compito di «chiarire i significati politici, culturali e sociali dell’immagine», e di mostrare una stretta connessione fra quello che abbiamo cercato di comprendere come antropologi e il prezioso lavoro dei fotografi. Testi e spiegazioni, talvolta sfumati nelle descrizioni e altre volte più didascalici, assolvono a questa funzione.

Più che un’aspettativa di consenso e condivisione, la linea che abbiamo seguito pensa che la potenza di una fotografia stia nell’obbligare chi guarda «a farsi domande su quello che sta accadendo oltre i bordi dell’immagine». Da una parte, mostrano gli ingranaggi feroci del malfunzionamento del sistema, e dall’altra tracciano i punti complessi delle esperienze vissute dai richiedenti asilo ritratti. Il lavoro fotografico così pensato colloca, inoltre, i soggetti in un punto della storia, li ritrae cioè in un momento della loro vita sia biografica che sociale.

Non è in realtà solo questo aspetto comune ad avvicinare i due registri narrativi. Il lavoro collettivo ha fatto sì che la linea metodologica puntasse nella stessa direzione. Il lavoro dei fotografi non è stata «una caccia alle immagini più drammatiche» (Sontag 2003 25), non ha assunto forme pietistiche intenzionate a catturare uno sguardo compassionevole, tanto meno ha seguito le tracce degli organi di stampa. La sceneggiatura ben più estesa e articolata ha cercato di contrastare non solo la trama razzista del discorso più respingente, ma anche quel sapere umanitario che ha fatto dei rifugiati un «oggetto di conoscenza, assistenza e gestione» (Malkki 1996 Speechless emissaries: refugees, humanitarianism and dehistoricization Cultural Anthropology 11).

Le fotografie che circolano sui rifugiati nell’arena nazionale e internazionale hanno concretamente costruito un immaginario sociale sull’esser rifugiati. La rappresentazione cui assistiamo – «uno spettacolo di cruda, nuda umanità», una «corporeità anonima» (Malkki 1996 388) e indistinta, un «mare di umanità» (Ibidem) che nel caso italiano spesso è presentata come stipata nei barconi, che se diventa singola è quella di un volto sofferente e comunque anonimo e indistinto – pone la questione dei rifugiati in uno spazio a-storico e ancor più de-storicizzante.

Esistenti solo come figure destinatarie di cura e controllo, corpi da salvare, assistere e sorvegliare, uomini e donne richiedenti asilo divengono immagini universali di corpi sofferenti e da cui difendersi, a discapito di un loro riconoscimento di attori dell’arena sociale e politica. Alcune fotografie hanno un forte impatto nel ritrarre come dinanzi alle operazioni di assistenza e di controllo quegli uomini e quelle donne smettono di essere soggettività politica per divenire «vittime silenti e mute». Entrano così nella sfera della nuda vita che separata dalla polis riconosce quel soggetto solo come corpo fisico, sofferente e da assistere e non come soggetto politico e sociale, capace di azioni e di traiettorie di vita. Il concetto di nuda vita è però infranto dai soggetti stessi, che dando al loro essere richiedenti asilo un significato diverso da quello istituzionale o legato all’immaginario sociale, rintracciano modi per cavarsela o per riorganizzare la vita dopo l’approdo, per quanto questa riorganizzazione spesso sia fatta di espedienti e faccia i conti con i limiti della legalità. Il merito va qui chiaramente ai fotografi che hanno tradotto in immagini un sapere critico, articolato e fortemente «« Parla conconsapevole.

Se lo scopo delle immagini è “materializzare le osservazioni e memorizzarle” (Schultheis 2012, 64) esse non limitano a testimoniare la storia, si legge nelle pagine d’introduzione al lavoro fotografico di Pierre Bourdieu (2012) sulla guerra di liberazione algerina. Le immagini danno, infatti, indizi “sulla posta in gioco” (Ibidem, 64) e sugli effetti sociali e politici che determinate circostanze storiche hanno sulla vita di certe popolazioni. Assolvono così ad una funzione specchio (Ibidem, 66; cfr. anche Sayad 2002, Palidda 2008), diventando una forma di impegno politico e di denuncia laddove mostrano i lati bui delle società che producono determinate forme di segregazione e violenza.

Le fotografie presentate ritraggono situazioni di vita dei richiedenti asilo – dal porto di arrivo alle strutture d’accoglienza, ai campi agricoli alle partite di calcio nei campi d’assistenza – facendo luce al medesimo tempo sulle marginalità fisiche e sociali prodotte dal contesto in cui si diventa richiedenti asilo, e laddove è stato possibile sui processi di costruzione e di cura del sé. Queste fotografie non parlano dunque dei rifugiati in generale, per quanto il potere delle immagini sia anche quello di scatenare discussione critica ampia sulla responsabilità delle istituzioni e degli organi stessi che dovrebbero garantire protezione. Sono invece ben posizionate nella storia, riuscendo così a portare con sé una valenza politica, e ad impegnare lo sguardo verso profonde ingiustizie sociali.

Le dimensioni relazionali o soggettive ritratte in alcune fotografie non hanno solo una funzione biografica. Non s’intende cioè dar spazio a dimensioni private o intime delle persone, né far piccola un’immagine dinanzi alle dinamiche dei processi sociali. L’attenzione alla microdimensione di alcune fotografie serve a far luce sulle forze sociali e sugli ingranaggi spesso spietati dell’economia e della società che mettono quei soggetti in condizioni di marginalità o vulnerabilità politica. Attraverso la soggettività ritratta emergono i punti delle strutture sociali e politiche che causano sofferenza, dolore, umiliazione, e insieme pratiche e attività organizzate dentro alla quotidianità dell’attesa dei permessi. Sono dunque gli aspetti della vita quotidiana delle persone laddove toccano, rendendoli visibili, feroci ingranaggi sociali, di volta in volta burocratici, istituzionali, legati all’abbandono o alle responsabilità istituzionali. È dunque una metodologia strettamente etnografica quella che ci ha direzionati nel combinare insieme fotografia e ricerca etnografica. Di queste storie, rintracciamo pertanto quei punti che evidenziano la discriminazione istituzionale e gli effetti perversi del sistema politico, economico e sociale, che, da una parte, controlla la posizione legale non ammettendo sbavature, e contemporaneamente riduce più volte al silenzio le loro stesse storie di violenza, abbandonando uomini e donne ad una spesso perdurante situazione di povertà e miseria.

Questi percorsi biografici s’iscrivono, inoltre, su percorsi istituzionali nazionali ed europei facendone emergere le modalità con cui politiche e pratiche incidono pesantemente sullo scorrere delle loro esistenze. Si tratta, in altri termini, di documentare la violenza dell’esclusione nei suoi processi di assoggettamento, ovvero nella costruzione di soggettività e dal punto di vista di chi subisce l’oppressione sociale, e le strutture dell’abbandono sociale e istituzionale.

I fotografi hanno fatto i conti con il diniego di permessi per accedere alle strutture e con difficoltà, incontrate dagli stessi antropologi, nel documentare particolari situazioni per via di controlli e autorizzazioni non concesse, revocate o limitanti. Questa assenza, come spesso succede, ha direzionato il loro lavoro verso “ciò che accadeva nei dintorni”, o fuori dai confini materiali dell’assistenza. Ha avuto, al medesimo tempo, la capacità di raccontare realtà non accessibili agli occhi dei media, o che in esse non hanno trovato interesse, e che comunque non hanno circolato nei canali ufficiali. Si è riempito così in parte un vuoto di conoscenza rispetto alle strutture dell’abbandono o della marginalità vissuta ai margini del sistema di protezione. I fotografi sono stati capaci di portare nello spazio pubblico aspetti drammatici per lo più invisibili.

Ritorna però la critica all’accezione di invisibilità, mostrando quanto questa parola sia priva di legami con la concretezza dell’esperienza vissuta dalle persone ritratte. Una serie di azioni quotidiane – cucinare con fornelli da campeggio, tagliarsi la barba, cura del corpo – e la materialità in cui si consumano – capanne, abitazioni improvvisate, piccoli spazi pubblici resi luoghi domestici e di cura di sé – mostrano un mondo complesso che a fatica lo si può pensare invisibile.

Alcune immagini che i fotografi hanno raccolto vicino a Pian del Lago, Caltanissetta, per esempio, ritraggono un piccolo mondo costruito ai margini delle strutture d’accoglienza costruito da coloro che sono stati abbandonati dal sistema di protezione, o che erano in attesa di entrarci.

Più che soggetti disperati o volti che vogliono di catturare la pietà dello spettatore, le immagini mostrano lo trascorrere di una vita quotidiana organizzata in uno spazio di diritti piuttosto ridotto. Così, quell’economia della miseria «vista di solito (non soltanto dallo sguardo razzista, ma anche solo da quello ingenuo) come sporca, brutta, disordinata, incoerente, ecc.» (Bourdieu 2012 In Algeria. Immagini dello sradicamento Roma Carocci 88-89), è invece stata vista e presentata come «il luogo di una vita molto complessa, che ha una propria logica, e nella quale si dispiega molto ingegno, che offre a molte persone dei mezzi minimali di sopravvivenza e soprattutto delle ragioni di vita sociale» (Ibidem 88-89).